I primi cannabinoidi, precisamente il cannabinolo ed il cannabidiolo, sono stati scoperti intorno agli anni 1940-42, da parte di scienziati americani e inglesi che ne hanno determinato la struttura chimica.
Il delta 9-tetraidrocannabinolo, il cosiddetto THC, è stato isolato come principio attivo della cannabis successivamente nel 1964. Da quel momento in poi è iniziata la ricerca sul potenziale utilizzo in campo medico di questa pianta e sulle sue principali proprietà farmacologiche. Tuttavia, nessuno ancora sapeva davvero come agisse a livello molecolare e come facesse ad alterare la coscienza, stimolare l’appetito, diminuire la nausea, sedare le crisi epilettiche ed alleviare il dolore. Però, prima di vedere come intervengono i cannabinoidi sul cervello, è importante capire a grandi linee cosa è il Sistema Endocannabinoide e da cosa è composto.
Il sistema endocannabinoide è un complesso sistema di comunicazione tra cellule. I suoi principali costituenti sono: i recettori endocannabinoidi con i loro ligandi endogeni e tutta la classe di proteine responsabili del trasporto e del metabolismo degli endocannabinoidi stessi.
La dimostrazione dell’esistenza di siti recettoriali nel cervello dei mammiferi avvenne nel 1988, grazie ad uno studio dell’università statunitense di St. Louis. I recettori sono delle proteine specializzate, che, incorporate nelle membrane cellulari, rispondono farmacologicamente alle molecole presenti nella resina della Cannabis. Il recettore cerebrale per i cannabinoidi, CB1, fu scoperto dalla Dottoressa Lisa Matsuda, la quale nel 1990 determinò la sequenza precisa del DNA che codifica i recettori sensibili al THC presenti nel cervello del topo e così facendo riuscì a clonare tale recettore. Il recettore CB2 fu scoperto qualche anno più tardi, nel 1993. Mappando le posizioni dei recettori cannabinoidi, si è scoperto che i CB1 si trovano prevalentemente, ma non esclusivamente, nell’encefalo e la loro attivazione giustifica molti degli effetti propri dei cannabinoidi: sono stati individuati nell’ippocampo (memoria), corteccia cerebrale (cognizione), cervelletto (coordinazione motoria), gangli basali (movimento), ipotalamo (appetito), amigdala (emozioni) e sostanza grigia periacqueduttale (dolore). Al contrario, i recettori cannabinoidi non sono invece presenti nelle zone del cervello che controllano le funzioni cardiovascolari e respiratorie, e ciò coincide con la non letalità di un sovradosaggio di THC ( a differenza degli oppioidi). Inoltre i recettori CB1 sono presenti in minor quantità, anche in alcuni organi e tessuti periferici tra cui ghiandole endocrine, ghiandole salivari, leucociti, milza, cuore e parte dell’apparato riproduttivo, urinario e gastrointestinale.
A differenza dei CB1 invece, i recettori CB2 sono espressi principalmente a livello periferico e svolgono prevalentemente un’azione periferica con attività immunomodulatoria.
Alla scoperta di tali recettori ha fatto seguito nel 1992 l’identificazione delle sostanze endogene “ligandi” di questi recettori, ovvero gli endocannabinoidi. Questi endocannabinoidi sono derivati dall’acido arachidonico, acido grasso polinsaturo di membrana. Il primo ad essere stato identificato è stato l’Anandamide (N-arachidonoil etanolamide “AEA”), che deve il suo nome alla parola sànscrita “Ananda”, che significa “stato di grazia”, “beatitudine”. Al contrario di altri mediatori chimici cerebrali non sono prodotti e immagazzinati nelle cellule nervose ma prodotti dai loro precursori e quindi rilasciati dalle cellule “on demand” (solo quando necessario). Questo meccanismo si attiva all’esigenza, ad esempio per un forte stress. Espletata la sua funzione fisiologica, il sistema si disattiva rapidamente mediante degradazione degli endocannabinoidi ad opera di specifici enzimi.
I cannabinoidi vegetali o fitocannabinoidi, possono intervenire qualora questo sistema di comunicazione non sia ottimale o abbastanza efficiente, agendo sui recettori o andando a rallentare il processo di degradazione degli endocannabinoidi stessi. Pertanto, i fitocannabinoidi possono rendere più efficiente il sistema endocannabinoide stimolandolo a ritrovare la sua intrinseca capacità di essere omeostatico, cioè ricercatore automatico di benessere naturale in quanto dotato di capacità spontanea di autoregolazione.